Il pubblico osserva con il naso all’insù la relazione che si crea tra una rampa di legno e un corpo femminile. Catarzi percorre con la sua danza un declivio lungo 5 metri abitando una larghezza di un metro e mezzo circa, e chi assiste a questa astrazione esistenzialista si sente partecipe di un momento estremamente intimo eppure universale: la fatica della salita, l’imprevisto della discesa, l’invenzione di gesti netti e definiti, la sorpresa dei salti. Una partitura che si fa poesia e ci porta a chiederci – con Ermanno Cavazzoni – se quel piano inclinato non possa porsi come perfetta metafora della vita.
Il declivio si fa salita e si fa discesa, ci permette di percepire la soddisfazione di essere arrivat in cima, e allo stesso tempo ci mette di fronte alla paura, ma anche alla necessità di cadere, anche se dolcemente, scivolando, ma senza appigli: “Ed è questa l’altra dimensione intima che attraversa l’intero spettacolo e che ci parla di fragilità e di forza, di cambiamento e di resistenza”.